MILANO - Si torna a parlare della terapia Di Bella. E questa volta non per denigrare il lavoro del professore modenese scomparso pochi anni fa, ma per affermare che le sue intuizioni sull’attività antitumorale di alcune molecole e sulla necessità di inibire i fattori di crescita neoplastici per vincere i tumori erano fondate. Non a caso nel corso del convegno "Somatostatina e melatonina in oncoterapia" orgnizzato dalla Società Italiana di Bioterapia Oncologica Razionale Metodo Di Bella che si è svolto ieri a Milano, il capo della segreteria tecnica del Ministero della Salute, Vincenzo Saraceni, è intervenuto annunciando: «Alla luce dei molti lavori e delle positive ricerche che negli ultimi anni sono stati fatti nella direzione indicata da Luigi Di Bella, il ministro Storace ha deciso di riconsiderare la base della sua terapia». Una terapia che, nonostante sia stata ostacolata (in un passato abbastanza recente) da ministri e politici e considerata alla stregua di una pratica sciamanica da buona parte della comunità scientifica, continua ad essere utilizzata da numerosi ammalati e prescritta da un gruppo di medici non proprio esiguo. Secondo il figlio di Luigi Di Bella, Giuseppe, sarebbero 15 mila i malati di tumore che si curano seguendo le indicazioni del padre, e oltre cento gli specialisti che, anche all’interno delle strutture sanitarie pubbliche, utilizzano sui propri pazienti somatostatina, melatonina e retinoidi, i tre principali elementi del metodo ideato dal clinico-fisiologo modenese.
«Che la somatostatina agisca inibendo i fattori di crescita tumorali è un fatto accertato: esistono oltre 20 mila studi che ne documentano l’efficacia. È stato il primo farmaco intelligente, come vengono chiamati ora i medicinali che inducono l’apoptosi, cioè la morte cellulare - ha spiegato Maurizio Pianezza, chirurgo all’Università degli Studi di Genova -. L’oncologia sta però cominciando a modificare le sue prospettive. Sinora il cancro è stato considerato un’unità morfologica da estirpare chirurgicamente e da azzerare con la chemioterapia, mentre oggi cominciamo finalmente a guardare ai farmaci come a qualcosa in grado di agire sulle strutture biomolecolari, cioè sui suoi fattori di crescita. Questo è il valore delle scoperte di Di Bella, che ha indicato ua nuova via per aggredire i tumori. Se anziché sfidare la comunità scientifica avesse lavorato dal suo interno, forse Di Bella avrebbe ottenuto migliori riconoscimenti».
Modificare il terreno biologico che consente l’insorgenza della malattia anziché aggredire il prodotto del processo neoplastico come accade con la chemioterapia, può dunque essere una via per sconfiggere il cancro: i medici intervenuti ieri hanno portato dati al riguardo. Il pneumologo Achille Norsa che all’ospedale Maggiore di Verona ha sperimentato la terapia Di Bella, ha parlato di casi di regressione e anche di remissione nei tumori polmonari al primo e al secondo stadio. E ha affermato: «In casi al terzo e quarto stadio, a pazienti che non avevano speranza di sopravvivenza con le terapie convenzionali, la somatostatina e la melatonina hanno garantito anche più di 20 mesi di sopravvivenza. Due anni di vita per chi pensa di non avere nemmeno un giorno in più, sono un grandissimo regalo».
E Giuseppe Maria Pigliucci, docente di chirurgia oncologica all’università romana Tor Vergata, ha parlato di una media generale di guarigioni che se arriva al 33 per cento con la radioterapia, sfiora il 60-70 per cento quando si associano altre terapie, come l’ipertermia (il riscaldamento delle cellule con onde elettromagnetiche), la somministrazione di somatostatina, la chemioterapia a basso dosaggio.
«Quando Di Bella cominciò a parlare di terapia metronomica, cioè dosaggi ridotti di chemio associati ad altre terapie, venne definitivamente crocefisso — ha ricordato Pigliucci-. Oggi invece sappiamo che trattare il paziente da più fronti, cioè in maniera multidisciplinare dà maggiori possibilità di guarigione. Proprio per questo la classe medica dovrebbe iniziare a riflettere sui protocolli che stabiliscono dosi e metodi ma non considerano gli effetti collaterali: se continueremo rigidamente ad affidarci a norme standardizzate per pazienti che sono tutti uno diverso dall’altro continuererno a domandarci perché uno muore in sette mesi e un altro vive ancora tre anni».