Luigi Di Bella, medico onesto che credeva nella "missione".

Quando scompare una persona perbene, è come se venisse a mancare qualcosa che ci appartiene. Non ho conosciuto Luigi Di Bella se non telefonicamente, una volta ma avendo vissuto la sua vicenda molto da vicino, posso dire di averlo fatto. Ebbene, l’Italia ha perso un uomo di valore, un medico che credeva profondamente nel suo lavoro, uno studioso, un ricercatore controverso e poco controllabile, un laico che aveva fede quasi esclusivamente nei propri studi. E non ultimo aspetto un camice bianco di grandissima onestà. 
La sua storia ha comunque scosso l’Italia. Il professore iniziò a far parlare di sé sui giornali e in televisione, perché curava i malati di cancro con una multiterapia che secondo i pazienti aveva del miracoloso. I suoi "adepti" (nel senso rispettoso del termine) si fecero sentire con manifestazioni rumorose che, quasi sempre, prendevano di mira l’establishment della medicina e il ministero della Sanità. A forza di protestare raccolsero consensi in larga parte dell’opinione pubblica. Alcuni politici poi, in particolare quelli di Alleanza Nazionale, strumentalmente si schierarono con i "dibelliani": per An rappresentavano un Cavallo di Troia nella lotta contro il ministro della Sanità di allora, Rosi Bindi, e più in generale contro il governo dell’Ulivo.
Qualche commentatore, con estrema superficialità, scrisse che i "dibelliani" erano di destra e gli "anti" di sinistra. Non fu così: oncologi vicini alla destra, come Francesco Cognetti, erano contro; il pretore Carlo Madaro, dell’Ulivo, fu il primo a imporre ad una Asl di fornire gratis la terapia. Anche i Verdi sostennero con discrezione, senza clamore, la posizione proprofessore. 
Chi scrive si schierò fin dall’inizio con numerosi commenti su "Repubblica" con Di Bella, mentre altri sostennero, sul giornale, una diversa posizione: tra questi, ricordo il compianto Giovanni Maria Pace. Partendo da considerazioni non certamente scientifiche non essendo medico né tantomeno ricercatore e non avendo perciò le basi per valutare la bontà della multiterapia, intravedevo nella vicenda alcuni aspetti "distorti" della moderna medicina. Nel professore modenese era dominante come emergeva dalle testimonianze e dai racconti dei cronisti la figura del vecchio medico di famiglia, da piccolo paese di provincia, il quale pur avendo tanti malati da seguire sapeva mantenere con loro un rapporto vero e profondo. Luigi Di Bella, con il suo volto antico, emanava un umanitarismo particolare. Che poi trasmetteva nelle visite che faceva con dovizia, attenzione, scrupolo e sempre dimenticando il tempo a disposizione. 

Un’altra considerazione "pro" prendeva spunto dal rispetto per il dolore, per lasciare aperto uno spiraglio alla speranza. A quei parenti di figli, sorelle, mariti, genitori, ai quali la medicina ufficiale diceva «non c’è più niente da fare», non era giusto negare l’ultima chance. E Di Bella, per moltissimi malati di cancro, rappresentava l’estremo tentativo di cura. Spesso con risultati negativi, perché altrimenti oggi la sua multiterapia verrebbe osannata nel mondo. Insomma, bisognava e bisogna aver compassione per chi soffre e non si rassegna alla morte. Inoltre c’era qualcosa di scandaloso nel mercato: il prezzo della somatostatina (componente fondamentale della MDB), venduta ad oltre cinquecentomila lire per dose. Dopo le numerose proteste, il prezzo scese a ottantamila lire.

Da qui il passaggio alla sperimentazione era obbligato, doveroso. Verso i malati e verso quella parte della scienza che si mostrava più aperta al confronto (tra i quali il professor Veronesi che non escluse la possibilità di sorprese dai risultati dei laboratori). L’ex ministro Bindi in un primo momento ostile verso Di Bella prese atto della situazione nel paese e decise per la sperimentazione (da realizzare in diversi centri antitumore e con i soldi pubblici), scontrandosi anche con l’"accademia" che rifiutava qualsiasi confronto, giudicando il professore modenese poco più di un ciarlatano. In quella fase fu evidente la distanza di una parte dell’empireo scientifico dai cittadini, dalle loro necessità, dalle loro richieste di umanizzazione della cura.
La sperimentazione (al di là delle polemiche che l’hanno accompagnata e delle denunce alla magistratura finite in nulla: la tesi del complotto contro la MDB è una sciocchezza), segnò tuttavia il netto fallimento, la bocciatura della multiterapia e la sconfitta del professore. Sconfitta che lui non ha mai voluto accettare: perché troppo orgoglioso, troppo affezionato alle sue cartelle cliniche, troppo convinto di sé e assolutamente negativo nei confronti della comunità medicoscientifica. Questo è stato il grande torto di Di Bella: la diffidenza. Che l’ha portato all’isolamento. Se fosse stato più disponibile (lo fu solo quando accettò di confrontarsi pubblicamente con la Bindi, nel momento topico dell’avvio degli studi ufficiali sulla multiterapia), avrebbe ottenuto di più. Ma non era nella sua natura, come aveva dimostrato per l’intera vita.

L’eredità che lascia è negli studi compiuti sui retinoidi e sui quali adesso molte ricerche si stanno impegnando. E’ possibile che lui abbia intuito un cammino e che nella MDB ci siano i presupposti per una futura cura anticancro. Sarà compito della scienza appurarne limiti e potenzialità. Ha inoltre sensibilizzato la società sulla lotta al tumore: in quegli anni la parola "cancro" era ancora "tabù" per i massmedia. 
Ma l’eredità più importante è il modo di lavorare di Luigi Di Bella, fondato sul rispetto e sull’ascolto dei malati. Perciò, multiterapia a parte e mentre il resto passa (come le polemiche e le strumentalizzazioni: una commissione di indagine sulla sperimentazione sarebbe una sconfessione della scienza nazionale di quel periodo), rimane vivo e ricco di valore il suo insegnamento. Che i giovani dovrebbero apprendere, riscoprendo la passione della missione medica.
g.pepe@repubblica.it