Le pagine, infarcite di attacchi a giornalisti e giudici, partono dalle «pressioni di natura lobbistica» dell’associazione di pazienti Aian «sul Gabinetto ministeriale» e arrivano alla «campagna nazionale di discredito del ministro. Si narra di una non meglio identificata «posta in gioco», che «capimmo nei mesi successivi». «Sta di fatto», spiega, «che un fisiologo di 80 anni, i suoi familiari e una piccola ma aggressiva cerchia di sostenitori tennero sotto assedio l’oncologia italiana e il Ministero della Sanità per quasi un anno».
Scegliendo alcuni argomenti del caso, racconta dell’ordine dato ai Nas di reperire 100 cartelle cliniche di pazienti. Infine tenta di ricostruire le tappe della sperimentazione. Scrive, sbagliando, che furono coinvolti 600 pazienti in nove protocolli. Invece ne furono arruolati 386. Aggiunge che «altri 2.000 malati vennero trattati nell’ambito di uno studio osservazionale, organizzato su base regionale e limitato ai pazienti in fase critica». Invece furono solo 769. E omette di scrivere che su questi pazienti terminali a distanza di un anno furono riscontrati importanti ma censurati risultati in termini di sopravvivenza e addirittura di riduzione del tumore.
La Bindi non scrive che i Nas scoprirono che ai pazienti furono somministrati 1048 flaconi scaduti, un dettaglio che negli Usa sarebbe servito a inficiare la sperimentazione ma che in Italia è servito a far redarguire Nas. Ricorda quando chiamò al telefono il prof col quale «non fu difricile, in un colloquio faccia a faccia, ritrovare un’intesa». Contesta le indagini del procuratore Guariniello che secondo lei «offrivano la sponda ai sospetti di una manipolazione del protocolli».
Ma basterebbero le decine di pagine dei rapporti di Guariniello sulla sperimentazione (per tacer d’altro) per chiedere una riapertura del caso. Spende due righe per i risultati della sperimentazione e ricorda che la rivista inglese Nature lodò la correttezza del suo operato.
Omette però di scrivere che la rivista inglese British Medical Journal, che pure pubblicò lo studio ministeriale, lo stroncò nella stessa edizione e nelle successive, tanto che si dovette chiedere ospitalità alla «serenissima rivista Cancer» per una ripubblicazione più cordiale. Neppure scrive che, a sperimentazione finita, lei stessa firmò una circolare con cui autorizzò la continuazione gratuita della terapia a 900 malati visto che avevano ottenuto importanti miglioramenti dalla inutile cura. Poi attacca i giudici e le loro ordinanze a favore dei pazienti.
Dimentica, la professoressa di diritto amministrativo, che davanti a perizie favorevoli di oncologi d’ufficio il giudice si deve adeguare. Per lei non era la cura a farli star meglio, «o si trattava di un'altra malattia», o «non c'era un tumore» o «la guarigione dipendeva da altri fattori». Di Bella è morto nel 2003. Ma «i suoi seguaci - conclude preoccupata - sono ancora molto attivi, con una rete di centri, farmacie, ambulatori in tutta ltalia». E annuncia che «nel maggio 2004 a Bologna si è costituita la Società italiana di bioterapia oncologica razionale Mdb. Sono pure riecheggiati annunci di guarigione». Non sa ancora che il 19 novembre medici dibelliani e oncologi ufficiali accorreranno al convegno organizzato a Milano proprio dalla Sibor di Giuseppe Di Bella per parlare dei benefici ottenuti con la cura Di Bella.
Tra i molti: Mario Petrocchi, Vice presidente nazionale dell’Associazione medici italiani, Adriana Albini, direttrice del Dipartimento di biologia molecolare presso l’Istituto Nazionale Ricerche sul cancro e vice direttrice dell'Istituio dei tumori di Genova, Luigi Dogliotti, direttore dell’Unità operativa di oncologia medica all’Università di Torino, Lucien Israel direttore emerito della Clinica oncologica Parigi XIII e tanti altri... Il caso Di Bella (un incubo, dunque), è sempre aperto e non per colpa del giornalisti.