Ha imparato a leggere e scrivere all’età di quattro anni e mezzo, un fenomeno già allora. E andata così. Luigino, ultimo arrivato (17 luglio 1912) in un famiglia stipata di tredici figli, a Linguaglossa, in provincia di Catania, venne ben presto dirottato, per alleggerire il peso delle bocche da sfamare, presso una sorella che insegnava in un villaggio di montagna.
C’era la guerra. Madri, mogli e fidanzate avevano gli uomini al fronte. Ricevevano le loro lettere ed essendo analfabete andavano dalla signorina maestra a farsele leggere. E pretendevano pure che rispondesse al loro posto. Lei non ce la faceva e allora smistò una parte del lavoro sul fratellino che fu così obbligato a sbrigarsela con la penna prima ancora di aver preso contatto col sillabario. Scriveva con mano incerta (me lo confermò lui stesso): «Noi stiamo bene, e così speriamo anche dite», una formula collaudata.
Negli studi, Luigi Di Bella rivelerà sempre doti non comuni. E non mi riferisco solo alla laurea conseguita all’età di 24 anni presso l’Università di Bari, alle due libere docenze (fisiologia umana e chimica biologica), agli svariati diplomi e titoli accademici. Quando uno dei suoi due figli, che frequentava il liceo classico, mostrò qualche debolezza in greco, lui si mise di buzzo buono e in pochi mesi tirò a lucido quella lingua per essere in grado di metterla in testa al ragazzo che incespicava nei vocaboli astrusi.

Tenace nella modestia
Più tardi, avendo scoperto che il più accreditato trattato di fisiologia in circolazione era di un professorone germanico, si buttò a capofitto nello studio del tedesco e in poco tempo riuscì a districarsi agevolmente tra quelle pagine fondamentali.
Nei numerosi convegni in tutto il mondo dove veniva regolarmente invitato a tenere relazioni, si esprimeva in un inglese impeccabile, di precisione... chirurgica, perché sosteneva che solo quella lingua possedeva i termini scientifici appropriati.
Una volta, durante un convegno internazionale, avendo esaurito il tempo a disposizione per esporre i risultati delle sue ricerche, venne interrotto e lui, chinando il capo, ritornò disciplinatamente al proprio posto, anche se il discorso risultava monco. Si alzò un celebre professore americano che annunciò: «Cedo totalmente il tempo che ho a disposizione al professor Di Bella perché in questa assemblea è l’unico che ha cose interessanti e nuove da comunicare».
Il dottor Giancarlo Minuscoli, bergamasco, suo prezioso collaboratore e amico fidato, che sovente - vincendo il terrore del volo - lo accompagnava nei viaggi all’estero (il “professore” appariva piuttosto impacciato nelle faccende pratiche), custodisce un’aneddotica sterminata a proposito delle incursioni di Luigi Di Bella nei più prestigiosi raduni medici. Riferisce 
ad esempio, dell’allergia ai banchetti ufficiali, e anche ai ristoranti. Normalmente si sceglieva una panchina di un giardinetto nei pressi della stazione per mangiare un panino. I due, a dispetto della lucida patacca appesa al collo, avevano l’aria di barboni.

Dedito allo studio
Allorché esplosero sulla stampa le polemiche a proposito della sua cura, la cosa che mi irritò di più fu il tentativo di far passare il prof. Di Bella come una specie di stregone, sciamano, sbucato da chi sa quale buia foresta africana. Niente di più fuorviante. Lui, al di là delle due cattedre che aveva occupato, dei lavori scientifici pubblicati (la voce “fisiologia del cervello” nella prestigiosa Enciclopedia Britannica reca la sua firma), era di una razionalità che oserei definire... mostruosa, maniacale.
Ho conversato a lungo con lui nel suo studio-laboratorio di via Marianini a Modena, e ne rimasi intimidito. Le sue spiegazioni apparivano... matematica pura. Cercava di dimostrarmi la funzione delle abenule. Dev’essersi accorto che io fantasticavo e cercavo di acchiappare le libellule, e mi disse con bonaria severità, scuotendo la testa: «Lei non capisce niente, vero?».
Tentai di deviare il discorso sul leggio che campeggiava al centro dello studio foderato di libri che, anche all’apparenza, incutevano rispetto. Lui, quasi arrossendo, si giustificò: «Quando studio, la notte, sto in piedi davanti al leggio altrimenti rischio di addormentarmi...».
Fino ai novant’ anni, Di Bella dedicava regolarmente dalle sedici alle diciotto ore alle visite dei pazienti, alla ricerca e allo studio.

A disposizione dei malati
Ricordo anche che prese in mano il foglietto illustrativo di un medicinale, lo esaminò attentamente. Quindi si concentrò per diversi minuti. Dava l’impressione che, in quella testa, si attivassero dei circuiti, si accendessero lampadine, guizzassero lampi, occhieggiassero fotocellule. Alla fine tradusse il tutto in una formula chimica e, dopo aver illustrato il gioco complesso delle molecole nell’organismo umano, pronunciò la sentenza. E il farmaco ne uscì con le ossa rotte (per non parlare del povero paziente che lo assumeva su ordine del medico...). Altro che stregone! D’altra parte lui non ha mai promesso miracoli a nessuno. Il traguardo che si prefissava era che un malato riuscisse a convivere con il tumore, conducendo una “vita normale” (era una sua frase caratteristica).
E non cianciamo, per favore, di “efficace comunicatore”. Di Bella, eccettuati naturalmente i suoi pazienti, era un “grande incompreso”. Il gesto di estrarre il portafogli, per lui era qualcosa di osceno. Gradita, al massimo, una scatola di cioccolatini (molto apprezzati quelli svizzeri). Spiegava, a riguardo dei suoi malati: «Quando uno ha già la disgrazia di avere un cancro, mica posso anche prendergli dei soldi». 
Conduceva una vita di una frugalità impressionante: «Devo risparmiare il denaro per acquistare le apparecchiature indispensabili alla sperimentazione... Per il pasto di mezzogiorno apro una scatoletta di fagioli: contengono le stesse proteine della carne, e così evito la spesa dal macellaio».

Una persona “pulita”
Nessuna vacanza. Unica evasione, la domenica. Saliva sulla vecchia utilitaria e si dirigeva verso il cimitero di Fanano, sull’Appennino modenese, per recare un mazzo di fiori sulla tomba dell’amata e insostituibile assistente “Deda” (Maria Teresa Rossi, un cervello che stava quasi alla pari con quello del professore), deceduta nel 1988 (quella perdita lo segnò per sempre).
Dichiarava a proposito del suo tanto contestato “protocollo”: «Il metodo è difficilmente attuabile con rapidità solo perché occorre cambiare cultura, mentalità, mezzi, uomini, sistemi; cambiamenti che oltre ad urtare contro formidabili radicatissimi interessi, rivoluzionano idee statiche, immutabili». Come a dire che il freno veniva posto soprattutto da inconfessati interessi economici e dall’incapacità (o non volontà) di abbandonare abitudini consolidate, ossia di sveltire il cervello rimasto inceppato.
Lui, vecchio, appariva rivoluzionario perché la mente era rimasta agile, inquieta, proiettata verso strade nuove, e i suoi erano esclusivamente, come amava esprimersi “interessi umanitari”.
Prevedo che, fra poco, qualche accanito avversario, più che riconoscerne tardivamente la grandezza, lo sfrutterà con spregiudicatezza e non certo per fini umanitari.
Penso sovente a quel casco di capelli candidi. Per me Di Bella resterà sempre, prima di tutto, una persona “pulita” che esercitava, in silenzio e solitudine, una specie di sacerdozio della scienza.
Un cervello come pochi, ma anche un cuore fuori dalle dimensioni comuni, e una coscienza che non sgarrava. La sua è stata, veramente, una vita... per la Vita.